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Lingua o dialetto?

Se ne parla fra noi (il Prof. dott.Bruno Rosada, italianista all’Università di Venezia, il dott. Giorgio Vascellari, sanscrirista ed io), comodamente seduti sotto un ombrellone in Bar da “Nico” alle Zattere: un cafè néro par mi, un spriss par Bruno e un gòto de mineràl sénsa brómbole par Giorgio.
“Sì – attacca Bruno – ma dobbiamo innanzitutto distinguere: che cosa si deve intendere per Lingua? e cosa per Dialetto?

L’opinione di Dante.
Dante Alighieri nel primo capitolo del De vulgari Eloquentia così scriveva: “Per lingua volgare (volgaris locutio) intendo quella alla quale sono educati i bambini da chi li alleva, quando cominciano per la prima volta a distinguer le voci; ovvero, per dirla in breve, quella che si impara senza alcuna regola imitando la balia.


Abbiamo poi una seconda altra lingua, che i romani chiamarono grammatica.
Di queste due lingue quella volgare, (o dialetto) è la più nobile, perché è stata la prima ad essere usata dagli uomini e perché tutti si servono di essa, anche se presenta diversità di forme e di lessico: e ancora perché questa è naturale, mentre quell’altra è artificiale”.

Al giorno d’oggi però…
, al giorno d’oggi però agli occhi (anzi agli orecchi) di molti il termine dialetto assume un significato spregiativo e non c’è da meravigliarsi che questa opinione sia abbastanza diffusa: i dialetti infatti hanno dovuto sostenere l’attacco di due formidabili nemici (l’uno fu la politica scolastica dei governi centrali tendenzialmente ostile ai dialetti in nome di una ottusa ma necessaria concezione unitaria dello stato nazionale; l’altro lo snobistico atteggiamento delle classi medio basse in particolare, che, ritenendo il dialetto una parlata di serie B, hanno fatto dell’uso della lingua italiana una sorta di status symbol, spesso per coprire la modestia delle proprie origini ed esibire un recente innalzamento sociale, disdegnando il dialetto come parlata plebea.
E per giustificare questo atteggiamento si è inventata una definizione di comodo, anche se non del tutto impropria: e cioè che la lingua sia quella che ha prodotto una letteratura e che viene usata o è stata usata in atti ufficiali.
E quindi sarebbe “dialetto” quello che non ha prodotto letteratura e non si usa nelle circostanze ufficiali.
È evidente che, se la mettiamo così, la lingua è subito automaticamente definita come la parlata nobile e al dialetto altro non resta che considerarsi incapace di produrre una letteratura e indegno di essere usato nelle occasioni ufficiali.
Diventa così inevitabile che il veneziano finisca per essere definito impropriamente una lingua, dato che in effetti fu anche usato dal Governo della Veneta Repubblica in documenti ufficiali e può esibire una tradizione letteraria di altissimo livello (così come ogni altra città del Veneto): ma in realtà la definizione sopra riferita è viziata da pregiudizi e da una certa arroganza campanilistica.
Meno che mai è sostenibile l’ipotesi che esista una “lingua veneta”: tale lingua non esiste e non è mai esistita.
Una lingua veneta si può inventare: basta darle una soffocante grammatica normativa (ortografia compresa!), ma sarebbe una lingua che non esiste: artificiale appunto.
I dialetti invece esistono e sono ancora ben vivi: il padovano, il trevigiano di destra e di sinistra Piave, il mestrino ed il veneziano (e fino a qualche tempo fa si poteva distinguere il veneziano parlato a Castello da quello di Cannaregio).
Ed è proprio per questo che i dialetti presentano una grande ricchezza di implicazioni e la ricerca etimologica fa luce su queste implicazioni e rivela risorse insperate:è questa la grande ricchezza dei dialetti.
A questo punto interviene Giorgio:
“Sì, – attacca – il dialetto, e anche di più: si è quasi di fronte ad un modo poetico di descrivere la realtà; e noi sappiamo che, mentre nella prosa in lingua italiana qualsiasi parola può essere mediata con un sinonimo normalmente traducibile in altra lingua, ciò non può avvenire né per il dialetto né per la poesia, dove il senso di ogni termine appartiene ad uno spazio/tempo di coscienza ben definito e quindi non trasferibile: e questo si evince chiaramente dalla constatazione che non esistono dialetti senza una produzione poetica propria (e mi riferisco qui alla nostra produzione dei sec. XVI e XVII), in quanto negli uni e nell’altra si celano le incalcolabilità affettive della “parola” che non può essere detta diversamente da quella che è, a pena di far cadere il senso e la suggestione di quanto si vuol comunicare; per quanto poi riguarda il nostro veneziano, si può tranquillamente aggiungere “con una ineguagliabile luminosità e dolcezza sonora, modulata sul ritmo del remo e dell’onda”.
Aggiungo anche che la maggiore libertà espressiva del dialetto, di tutti i dialetti, permette la conoscenza di domini generalmente censurati dalla necessitata e castigata lingua corrente, soprattutto per parole da quella considerate “volgari” ma che nella parlata dialettale acquistano invece intonazioni simpaticamente popolari nella misura in cui la loro allusività è percepita come scherzosa, scaramantica talora, e non mai offensiva: ma sovente benefica (tanto, per dire che l’efficacia colloquiale del dialetto offre la piena aderenza alla situazione addirittura in modo terapeutico: le parole sono farmaci, afferma Platone, esorcizzandone in qualche modo gli eventuali eccessi negativi); è quindi un linguaggio vivo perché recupera tutte le variabili legate alla sensibilità di un determinato ambiente in cui depositi di paure, superstizioni, credenze, storie, culture, episodi particolari comprensibili solo in quel luogo ed in quel contesto, sono restituiti all’intelligenza ed alla maggiore vivacità solo ed esclusivamente attraverso la parlata dialettale.
Questo allargamento di significati, per contro, non si verifica né può verificarsi nella lingua cosiddetta ufficiale (o lingua grammatica: per noi la lingua italiana) dove le forme e le esigenze rispondono ad un contesto comunicativo di carattere e di convenienza più rapido e territorialmente assai più ampio ma, appunto per questo, accompagnato dalla perdita di molte sfumature e di molte sottigliezze.
Per parte mia, mi sembra di condividere tutto quello che è stato detto; anzi, questi discorsi quasi mi commuovono (ma io sono uno che si commuove anche all’inaugurazione di un nuovo Supermarket) anche perchè mi viene in mente la parola italiana “madre” e la veneziana “mama, mia mama”, generica la prima ma assai più ricca e vibrante di sfumature affettive la seconda. E così continuo, a ragion veduta, con il mio quotidiano lavoro: la stesura in lingua italiana per gli articoli sulla “Nuova” e lo studio del nostro bel dialetto e la solita compilazione dei Cicchetti per i lettori che vogliono risentire come che parlava i nostri vèci.

Gianfranco Siega

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2 thoughts on “Lingua o dialetto?
  • Silvia scrive:

    Ho scoperto oggi questo sito, peraltro recentissimo, e l’ho trovato subito molto interessante. Ho letto l’ultimo articolo e sono d’accordo sul fatto che una “lingua veneta” non esista, ma perchè non considerare il veneziano (come il padovano, il trevigiano, ecc.) una lingua a tutti gli effetti, dato che ha una grammatica propria e una tradizione letteraria di tutto rispetto…?

  • Samantha scrive:

    Ciao Silvia, grazie per i tuoi commenti incoraggianti :-)

    La questione sulla “lingua veneta” è molto interessante, prossimamente (forse tra un paio di giorni) uscirà sulla Nuova Venezia un mio articolo che parla proprio di questo.

    Resta sintonizzata ci saranno altri approfondimenti! Grazie ancora. Ciao

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