Pubblicazioni, Rassegna stampa
Tanti dialetti, una sola scrittura
Riporto un mio articolo uscito sulla Nuova Venezia lo scorso giovedì 8 Ottobre:
Ad un’analisi, anche sommaria, del complesso dei dialetti veneti risulta subito doverosa e necessaria un’osservazione di fondo e cioè che la modalità grafica scelta da molti autori, che pur scrivono nello stesso dialetto secondo la variante di provenienza (veneziano, padovano o trevigiano che sia), è spesso soggettiva, confusa, raffazzonata e sempre di difficoltosa lettura, di conseguenza sostanzialmente intraducibile a livello fonetico.
Questo, ovviamente, dipende da quel diffuso, ingenuo e puro entusiasmo di singoli scrittori che non vogliono far scomparire un idioma al quale sentono affettivamente e storicamente di appartenere, ma, anche se in un certo modo si può giudicare lodevole, è un atteggiamento che ingenera un grave problema: quello appunto, del “capirsi” reciprocamente.
E proprio da qui nasce la domanda fondamentale: è possibile l’adozione di una grafia comune a tutti i dialetti veneti che ne descriva correttamente la pronuncia ed al contempo ne conservi le diversità e le sfumature che li contraddistinguono nella loro irripetibile unicità?
Dunque è possibile descrivere una pronuncia?
Io ritengo di sì, e mi spiego: i mezzi per assolvere questo compito sono già stati esplorati ed elaborati sia attraverso la compilazione di un alfabeto fonetico internazionale (IPA) che si occupa di aiutare a scoprire la pronuncia di tutte le lingue conosciute, sia, in particolare per quanto riguarda i dialetti veneti, con il volume di Grafia Veneta Unitaria (GVU), dotti tentativi al limite dell’impossibile a causa dell’estrema difficoltà di decodificare i particolari caratteri grafici usati che richiedono una competenza e uno studio specifici.
Ne faccio un esempio: quando vi capita di consultare il dizionario, una volta trovato il termine ricercato, prima della spiegazione del significato dello stesso, vi è una parolina non ben identificata tra due barrette, una parolina che tutti scavalcano a pié pari perché indecifrabile, bene, quella è la traduzione del termine che stavate cercando nella pronuncia corretta. Riporto qui un termine esemplificativo che contiene graficamente molteplici difficoltà: la parola “calcestruzzo” risulterà /kalʧe’struʦo/ e non mi pare di facile lettura per chiunque!
Non credo che qualunque sensato lettore abbia voglia di perdere il proprio tempo nel tentativo di decifrare, parola per parola, pagine di simili complicati rebus, codici studiati per pochi che non sono usufruibili dai più servono in maniera relativa, dunque credo che si renda necessario piuttosto, attrezzarsi con opportuni strumenti linguistico-grammaticali che diano, almeno in parte, non solo la coscienza della pronuncia ma anche e soprattutto la consapevolezza di possedere alcune fondamentali regole condivise che possano essere utilizzate per qualsiasi nostra variante dialettale dalle quali si estrapoli conseguentemente la corretta pronuncia.
Ora, una lingua di riferimento leggibile e comprensibile da tutti, ed intendo qui la lingua italiana, ce l’abbiamo già; dunque, perché non usarne la forma grafica?
Certo ogni scrivente cercherà di tradurre i suoni che conosce, e cioè i suoni del proprio dialetto, in una grafia che ritiene corrispondente, ma ci si deve ricordare che quasi tutti i suoni dei nostri dialetti sono riconducibili alla forma grafica delle lettere italiane.
Porto un ulteriore esempio: se ad una persona qualsiasi chiedo di scrivere una parola in dialetto (supponiamo “lingua”) otterrò probabilmente diverse modalità grafiche a seconda dei suoni che traduce dal proprio dialetto. Quindi il termine “lingua” lo potremmo trovare scritto “engoa” “lenguoa” o “engua”. Inversamente bisognerebbe partire dalla scrittura che conosciamo e non dal parlato altrimenti i termini si comprenderanno solo all’interno del contesto della frase: il termine “lingua” risulterà sicuramente più leggibile scritto “lengua”, la grafia è simile al sistema di riferimento e sarà più rapida la trasposizione da vocabolo scritto a significato reale.
Già questo sarebbe un bel passo avanti e un’alta cosa: perché usare, ad esempio, la grafia “raixe” quando è assai più semplice scrivere “raise” dando così un’informazione grafico fonetica immediatamente comprensibile?
Basterà ricordare che le consonanti poste tra vocali nel nostro dialetto, come per altro nell’italiano settentrionale, sono sempre dolci o sonore, e la consonante esse non fa eccezione e quindi raise si leggerà con la stessa esse dell’italiano rosa. Invece il suono aspro o sordo della esse si renderà in dialetto semplicemente raddoppiando la consonante: Venessia, piasser (venezia, piacere) e non di certo Venexia, piaxer o peggio.
Questo sistema faciliterebbe enormemente ogni variante cervellotica come l’uso delle varie simbologie quali la Ļ oppure Ł e consimili, per indicare le diverse pronunce.
Per concludere si percepisce ormai che i confini della nostra regione sono diventati molto più labili e lo scambio informativo, relazionale e sociale è più dinamico e anche a livello linguistico, pur volendo mantenere le varianti dialettali di ogni porzione regionale, è necessario creare una linea unitaria che potremmo ritrovare proprio in un’omogeneità grafica.
E sebbene il dialetto non possa considerarsi una lingua, perché priva di una grammatica normativa riconosciuta, mi pare che oggi ci sia la spinta verso l’intenzione di raggiungere una comune coscienza fonetica e grammaticale.
Ecco quindi tracciata una strada. Questo potrebbe essere un percorso che permetterebbe a tutti di diventare almeno lettori, con poco sforzo di un dialetto, anzi di tutte le varietà dialettali, apprezzandone le molteplici differenze.
Samantha Lenarda
Il dialetto nelle scuole? Solo legato alla cultura Sugarpulp.it: linguaggi da barbabietole