Echi del Nord-Est nella Commedia di Dante
Riporto un interessante articolo di qualche tempo fa scritto da Gianfranco Siega:
Dante, così ne scrisse Giovanni Gentile cent’anni or sono, volle esser filosofo e riuscì … poeta; certo, nei suoi 14.233 versi fu praticamente tutto: filosofo e poeta, politico, teologo, storico, polemista, letterato, astronomo ed altro ancora; ma fu, sopra ogni cosa ed in particolar modo, “pellegrino” nel senso pieno del termine (e io credo che se la sia viaggiata bene a piedi e a dorso di mulo, questa nostra amata Italia, conoscendone a palmo a palmo le terre che attraversava annotando, descrivendo e collocando topograficamente ben 356 nomi di città, monti, fiumi e laghi italiani…: ”… peregrino …io mi sia quasi a tutti gl’italici appresentato …” Convito, Tr. I, cap. III).
Si scopre così un Dante anche geografo e topografo, in particolare di quel paese che gli diede asilo e rifugio fino all’ultimo della sua tormentata vita, di quella terra “… che Adige e Po riga” (Purg. XVI, 115) e che va dal digradare delle prealpi Carniche e Giulie che ne rinserrano il lato settentrionale ed il loro termine fisico naturale, in quella Pola “… presso del Carnaro, che Italia chiude e i suoi termini bagna.” (Inf. IX, 114-115), e cioè fino a quella pianura, la padana, che Dante cerchia e conclude poi topograficamente anche nei suoi limiti occidentali e sud-orientali (da Vercelli al Po di Primaro, a Rovigo): “se mai torni a veder lo dolce piano / che da Vercelli a Marcabò dichina …” (Inf. XXVIII, 74 –75).
Le Prealpi del Nord Est: mi permetto, su quest’argomento, di dissentire dall’opinione di pur celebri e polemicissimi studiosi che sostennero la tesi “che mai Dante si sarebbe recato in quelle zone”: per quanto io posso dedurre non solo vi si recò ma vi si fermò addirittura per frequentarne gli abitanti, ne annotò le “montaninas omnes et rusticanas loquelas”, anche se poi non le usò nei suoi scritti a causa della loro asprezza, (chi mai si aspetterebbe una frase di questo genere, in antico friulano, in Dante?: “…post hos Aquilegienses, “i friulani”, et Ystrianos cribremus, qui CES FASTU? accentuando eructuant…” : De Vulg. Eloq., I, cap. IX), con esse ricusando anche la parlata veronese, la vicentina, la padovana, la trevigiana e tutte quelle che rimovevano l’ultima sillaba, come “nof” per nove e “vif” per vivo (in Barcis: “nouf” e “vif”): quelle zone, e risulta quindi evidente, il Nostro se le scarpinò tutte per bene e volle udirne con le proprie orecchie i lemmi caratteristici ed i modi del dire.
Ed allora dobbiamo chiederci, salvo poi a suffragarlo ed a comprovarlo ulteriormente: Dante anche alpinista? Una tesi questa che non suona poi tanto bislacca se a sostenerla fu nientemeno che il Burckardt (Über die Entstehung..., Leipzig, 1873) il quale ritenne di aver trovato bastevoli riferimenti letterari per dimostrare la diretta conoscenza del Poeta della fatica dell’arrampicarsi (Dante “grimpeur”, ante litteram, prima del Petrarca?).
Veniamo ora alle attestazioni e a qualche supposizione; Dante salì dalla terra al cielo, noi scenderemo invece dalle Prealpi fino allo squadernarsi della pianura, dal Bellunese al Friuli Venezia Giulia, a Treviso, Padova, Vicenza, Verona e Rovigo: un viaggio non dappoco.
Della zona del bellunese (Belluno fu diocesi accorpata con Feltre dal 1197 al 1462) i riferimenti non mancano certo: “e sua nazion sarà tra feltro e feltro” (Inf. I, 106) dove il primo dei due feltro, ed è questa la sola cosa certa della terzina, è la nostra Feltre, quella stessa che sarà punita per le colpe di Alessandro Novello: “piangerà Feltro ancora la difalta de l’empio suo pastor…”, il vescovo che consegnò alcuni fuorusciti ferraresi che vennero poi condannati a morte (Par. IX, 52-53).
Che Dante poi si sia recato anche in Friuli, in Valcellina ed in Istria è per molti ancora “vexata quaestio”; ma qualcosa si è già detto intorno alla lingua di quei popoli e qualcos’altro si aggiungerà qui sia dalla prospettiva storica che da quella filologica: ospite del trevigiano “buon Gherardo” (Par. XVI, 138), legato al vescovo Artico di Concordia che consacrò nel 1319 la chiesa di San Daniele del Monte in Friuli, tenuta in grandissimo onore in tutto il Veneto, nulla vieta che il Poeta si sia recato lì o nelle zone contermini nel tempo in cui si trovava ospite dei Da Camino a Treviso (1305) o, più tardi, con il vescovo Pagano di Padova: qualcosa, a testimonianza della sua permanenza in quelle zone, si può trovare in qualche scritto anche se tardo: “Dantes Alagerius…per annum UTINAE summo favore commoratus est…”(Candido, 1521) o anche “…frequentò sovente la bella contrada di TOLMINO CASTELLO, sovra CIVIDALE DEL FRIULI…e a questa credenza consente uno scoglio scosto sopra il fiume TOLMINO chiamato fin al dì d’oggi dai paesani Sedia di Dante” (Iacopo di Valvasone da Maniago, copia manoscritta dall’Archivio Malattia della Vallata) senza citare qui la lettera del Boccaccio al Petrarca e la citazione degli “antra iulia” e cioè del mondo sotterraneo delle Alpi Giulie.
Dante stesso peraltro rivela di aver in qualche modo conosciuto il Friuli: “e ciò non pensa la turba presente, che Tagliamento ed Adige rinchiude …”, (quelli che abitano entro i confini della Marca), o la piana dove”…si congela / soffiata e stretta dagli venti Schiavi” e cioè il Friuli e la Venezia Giulia spazzate dalla bora e dal grecale, o “com’era quivi: che se Tabernicch vi fosse su caduto…”, secondo il Bassermann (Dantes Spuren in Italien, Lipsia 1898) il monte Iavornik presso Adelsberg nelle Alpi Giulie.
E, se questo ancora non bastasse, un po’ di filologia dantesca: “cionca, lama, disgroppa, dismento, ploia, pandi, ciotto, barba …etc.” che il Liruti trova mutuate dalla schietta parlata friulana.
Per non dire di Verona, Vicenza, Padova, Rovigo (ampiamente attestate nella Commedia) e naturalmente di Venezia (nella quale si recò per ben tre volte); ed a questo proposito voglio aggiungere un piccolo aneddoto, capitatogli pochi giorni prima della sua morte, mentre fungeva da ambasciatore per Guido Novello da Polenta signore di Padova (aneddoto che riporto come puntualmente registrato dal Villani nella sua “Cronaca”, dove ricorda che il poeta fu invitato dal Doge, Giovanni Soranzo, n.d.A., a desinar in tempo di quaresima): “Erano oratori che lo precedevano e loro avevano grossi pesci davanti e Dante più piccoli, il quale ne tolse uno e se lo pose all’orecchio.
Il Dose gli domandò che cosa volesse dir questo.
Rispose Dante che suo padre era morto in mare e che domandava al pesce novella di lui.
Il Dose disse: “ Ben, che ve dìselo?”.
Rispose: “El dise lui e i suoi compagni esser troppo giovini e non si ricordano, ma che qui ne sono di vecchi e grandi, che mi sapran dar novella …“.
E il Doge, capito il bèrgamo, gli fece subito servire un pesce di grande misura.
Gianfranco Siega
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